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Patente e Libretto
Era la notte di Capodanno, probabilmente il 1980 o il 1981, ma chi lo ricorda con certezza? Di sicuro era un periodo in cui i miei capelli avevano più volume, le giacche avevano spalline immense, e le feste sembravano infinite. Io, fresco ventenne con l’arroganza di chi si sente immortale, mi preparavo per la serata con il mio gruppo di amici. Ero convinto che quella notte sarebbe stata epica. Avevo ragione, ma non nel modo che speravo.
Il piano era semplice: festeggiare a casa di Marco, il nostro amico con i genitori in vacanza, e poi fare un salto in centro per vedere i fuochi d’artificio. La musica era a tutto volume – qualcosa dei Queen, non lo ricordo bene – e le ragazze erano allegre quanto noi. Salvatore, il mio eterno complice, era già al terzo bicchiere di spumante e si vantava di saper leggere il futuro nel fondo del bicchiere.
Io, ovviamente, mi sentivo il re della festa. Indossavo una camicia aperta di due bottoni di troppo e avevo appena detto a una ragazza: “Sai, questo è l’anno in cui diventerò famoso.” Lei mi ha guardato e ha risposto: “Magari in una foto segnaletica.” Ridevo, ma forse era una profezia.
Arrivato il momento del brindisi, abbiamo alzato i calici come se stessimo per conquistare il mondo. “A noi!” gridavamo, mentre il pavimento si riempiva di coriandoli e bicchieri vuoti. Ma, si sa, con l’alcol arriva anche la perdita del senso comune e del pudore.
Dopo mezzanotte, qualcuno ha proposto di andare in discoteca. Lasciammo la casa che era un delirio.
Io, con l’entusiasmo di chi non conosce il proprio limite, ho deciso in forma autoritaria che sarei stato l’autista designato. “Tranquilli, guido io!”.
L’idea era perfetta nella mia testa: avevo la macchina di mio padre, una gloriosa Ford Fiesta, che per me era il massimo del lusso.
Dopo aver salutato i superstiti della festa, ci siamo infilati in macchina. Il problema non era tanto la mia capacità di guidare, quanto la mia incapacità di guidare sobriamente. Ogni curva sembrava di ammaestrare una anguilla , e ogni semaforo un invito a fare uno spettacolo di sgommate.
Nel frattempo, Salvatore cantava We Are the Champions a squarciagola, mentre io ridevo e cercavo di far finta che i lampioni non si muovessero più del dovuto. E poi è successo: un lampeggiante blu dietro di noi. I Carabinieri. Ed ecco l’incontro con la legge.
“Patente e libretto,” ha detto il carabiniere, guardandomi con la stessa espressione che aveva mio padre quando scopriva che avevo preso in prestito qualcosa senza chiedere.
Io, cercando di sembrare sobrio, ho fatto un sorriso storto e ho mormorato: “Buon anno, maresciallo!”
“Lo sarà più per noi che per te,” ha risposto, con il tono di chi andava sul sicuro.
Dopo una breve e disastrosa conversazione, mi hanno fatto soffiare nell’etilometro, un aggeggio che in quel momento sembrava un giocattolo diabolico. L’esito era chiaro: avevo esagerato. E fummo portati tutti e 4 in caserma. “Chiama tuo padre,” ha detto il carabiniere.
Il momento di chiamare mio padre è stato peggio di qualsiasi punizione. Non avevo scelta, così ho preso la cornetta che mi ha passato il carabiniere – sì, allora, niente cellulari – e ho composto il numero di casa.
“Pronto?” ha risposto mio padre, con quella voce che ti fa subito capire che stai per morire. “Papà… buon anno!” ho iniziato, cercando di addolcire la pillola. “Sono… ehm… qui in caserma con i carabinieri. Potresti venire a prendermi?”
Il silenzio dall’altro lato della linea era pesante come un macigno. Poi è arrivata la risposta: “Sto arrivando. E prega che tua madre si calmi e non svenga!”
Quando mio padre è arrivato, indossava un cappotto sopra il pigiama e aveva lo sguardo di Clint Eastwood in un film western. “Buon anno!,” ha detto ai carabinieri con una calma spaventosa. Lo vidi parlare con i carabinieri ed era chiaro che li stava ringraziando scusandosi di avere un figlio scapestrato. Poi si è voltato verso di me cambiando tono: “Tu sali in macchina. E non dire una parola.”
Il viaggio verso casa è stato un monologo di mio padre su responsabilità, vergogna e su come avrei potuto mandare all’aria la reputazione della famiglia.
Io, con la coda tra le gambe, rispondevo solo con: “Hai ragione, papà. Non succederà più.”
Ma dentro di me sapevo che, in qualche modo, quella notte sarebbe diventata leggenda. E così è stato: ogni Capodanno successivo, gli amici non mancavano di ricordare ridendo di come mi avevano fermato e delle scuse che dicevo per cercare di farla franca. Scuse che erano un verdetto di colpevolezza.
E mio padre? Beh, oggi che non c’è piu’ ma penso che dall’alto, ogni tanto mi guarda e dice: “Ti ricordi quella notte? Non ci sono più i capodanni di una volta.” E per fortuna, aggiungerei.
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