Il Numero Uno di Olbia

Loading

Arrivò in una nuvola di polvere sollevata dalla sua auto. Era del 8°/78, era uno di noi.

Lui con accento genovese su una auto mini rossa.

Presto si fece notare per tutto il paese e chi conosceva Olbia, in quegli anni, sapeva che, in mezzo alla nebbia del mattino o alle luci soffuse della sera, c’era un ragazzo che trasformava ogni giornata in un’opera d’arte. 

Presto lo avrebbero chiamato  “il numero uno di Olbia”. Solo chi l’ha conosciuto ha in testa il suo vero nome.

Ma quello era un soprannome che gli calzava a pennello, un omaggio al suo stile inarrivabile e al fascino naturale che lo faceva sembrare il protagonista di un film francese degli anni ’50.

Camminava per le strade del paese con un’aria di sfida e un mezzo sorriso che poteva essere complicità o derisione, a seconda di come lo guardavi. Un gentiluomo con le ragazze. Se avevi bisogno potevi contare su di lui. Non importava se era per chiacchierare o per una rissa. Bastava chiederlo.

Spesso bisognava andarlo a riprendere in un bar o dopo le conseguenze di una rissa. Ubriaco o ammaccato. Era il suo bello. Una sera era riuscito a fare rissa con un equipaggio di un dragamine francese. Da solo! L’abbiamo raccolto che respirava appena.

Ma non c’era partita a carte che non avesse vinto, né bottiglia che avesse lasciato mezza piena. «Siete qui tutti attendendo che io perda ma, buttate via il vostro tempo», diceva spesso agli amici al bar, un misto di scherno e affetto.

Per lui quegli anni di militare era tempo buttato via e, lo diceva a tutti che, non intendeva trascorrerlo aspettando il congedo.  Lo ascoltavano ridere, ma senza mai contraddirlo.

Un tempo, Olbia era il suo trono indiscusso. Con le mani sempre infilate nelle tasche della divisa, e il berretto sotto il braccio, osservava i suoi coetanei dicendo,  “andate a spazzare il cortile ” mentre lui giocava la sua ennesima partita col destino. 

E quando qualcuno si illudeva di avere una vittoria in pugno o a carte o a bocce, bastava uno suo sguardo per riportare il risultato a suo favore.

Un giorno, qualcuno chiese: «Ma com’è che sei diventato così?»

Lui rise, una risata lenta, profonda, e disse una frase che ancora uso.  “ Posso insegnarvi a giocare a carte. Ma lo stile e la classe non posso insegnarlo. È una cosa che hai, o non hai”

I giorni passavano, ma lui restava lo stesso. Le ragazze arrivavano e se ne andavano, i bicchieri si svuotavano, i tavoli da gioco vedevano la sua fortuna oscillare come una barca sul mare. 

Ma una cosa non cambiava mai: lui non saliva mai sul “carro del perdente”. «Io vivo esagerando», lo ammetteva, «ma sempre con classe».

Ogni tanto, c’era chi provava a sfidarlo. «Ti piacerebbe provare la mia fortuna?» diceva, inclinando la testa. Ma nessuno riusciva a reggerne il peso. Tutti perdevano 

Quel ragazzo di Genova si nutriva di storie, mezze verità e bugie totali. «Non provate nemmeno a toccare la mia macchina», e nessuno riuscì mai capire se scherzava.

Ma la verità era che lui aveva trasformato la sua vita in un teatro, e la sua parte la recitava bene, come nessun altro. E noi non lo sapevamo.

Ora, se vai a Olbia e passi sul molo forse puoi ancora trovarlo. Lo puoi immaginare seduto in un angolo che inclina la bottiglia, sorride, e osserva gli altri che cercano di capire cosa significhi davvero essere il numero uno. 

Oppure lo puoi sentire che sposta l’aria passando in una via con la sua macchina e la musica di Baglioni a pieno volume

Perché lui a Genova non è piu’ tornato ed e’ rimasto lì in quel posto da dove voleva fuggire con la sua macchina rossa e non so se lo chiamano ancora “il numero uno di Olbia”. 

Ma di lui qualcuno si ricorda ancora. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo.